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Il Plastic Club di Milano chiude dopo 45 anni, ma la notte non dimentica

  • Alessandra Sola
  • 5 September 2025
Il Plastic Club di Milano chiude dopo 45 anni, ma la notte non dimentica

E così è successo. Ieri, giovedì 4 settembre, “Killer Plastic O” ha spento le sue luci colorate a neon per sempre. Il Plastic Club di Milano ha annunciato, con un post Instagram, che la serata del 28 giugno è stata l’ultima, e il percorso “leggero e tentacolare” del più iconico dei club della nightlife milanese si conclude dopo quattro decenni. Motivazioni? Non dichiarate.

Se la cultura milanese del club è quella che è oggi, è semplice attribuire un’importante parte del merito al Plastic Club, il locale che il 23 dicembre 1980 ha aperto le sue porte facendosi largo tra le strade di Milano con un flyer che recitava “Abito scuro, trucco pesante, sfarzo.” Una dichiarazione di espressione libera, che passava attraverso l’estetica dell’eccesso, dello sfarzo, ma anche quella dell’assenza più totale di giudizio, che avrebbe segnato tutti i quarantacinque anni del Plastic.

Da Madonna a Keith Haring, Nicola Guiducci - founder, art director e DJ del Plastic - ha saputo far convergere menti di qualsiasi scena da tutto il mondo all’interno del suo locale. Insieme ai suoi instancabili soci e compagni di viaggio, Lucio Nisi titolare, Pinky la manager e Sergio Tavelli curatore della direzioni artistica insieme a Guiducci, hanno saputo plasmare un luogo identitario, dove, però, non fosse davvero necessario identificarsi in qualcuno o qualcosa per farne parte. La fluidità di appartenere a una comunità all’interno di un locale che non determina, ma si modella sul suo pubblico, creando allo stesso tempo una sorta di corrente, a cui chiunque con la giusta attitudine possa appartenere, è non solo un gesto politico molto forte, ma una scelta visionaria che ha attraversato generazioni, senza mai perdere di vista l’obiettivo: la libertà di sentirsi sé stessi in un luogo fuori dal comune.

Sono certa che chi è stato al Plastic e ha avuto modo di approcciarsi alla loro temutissima policy di door selection, potrebbe storcere il naso di fronte a quanto detto in precedenza. La verità è che il Plastic è stato tra i primi club in Italia a introdurre il modello New Yorkese di “selezione all’ingresso”, proprio come forma di tutela della clientela. L’attitudine, la ricerca estetica dello sfarzo, l’apparire per non prendersi troppo sul serio, sono stati da sempre i punti chiave per la selezione alle porte del Plastic. Sulla lavagnetta all’ingresso, una scritta accoglieva i militanti delle lunghe file che si formavano fino al 2012 in Viale Umbria, e poi in Via Gargano: “Tu ti faresti entrare?”. Una forma ironica e pungente, in perfetto stile Plastic, che era anche una dichiarazione di intenti per chiunque non fosse preparato a ciò che poteva vedere all’interno. La libertà dell’estro, per chi abitava le tre sale del Plastic, doveva essere una priorità, una sorta di statement con cui veniva morsa la vita. Nonostante i quattro decenni che l’hanno visto aperto abbiano attraversato epoche diverse, le limitazioni e imposizioni sociali sono state sempre piuttosto affini, frutto di influenze politiche - e non solo - che la nostra nazione in quarant’anni non è ancora stata in grado di abbandonare. Ecco perché luoghi come il Plastic Club sono, più o meno volontariamente, luoghi di grande manifesto politico. Quella scritta, “Tu ti faresti entrare?”, obbligava gli aspiranti avventori a guardarsi intorno, entrando in un tunnel di consapevolezza comunitaria che non per forza li vedeva identificati in un gruppo o in un movimento, se così si possono chiamare, ma quanto meno li forzava a porsi delle domande riguardo al dovere di spogliarsi dei giudizi una volta varcata la porta d’ingresso. La morale cattolica imposta dalla tipica educazione italiana, sicuramente, accendeva dentro molti di loro una lampadina che, più o meno come i neon che illuminavano “Killer Plastic O”, strillava “Non sono pronto”. E così, questa temutissima selezione all’ingresso, diventava un manifesto comunitario di tutela di chi per il tempo di una notte (o forse di più), voleva liberarsi dalle convenzioni, sentirsi bello e trasgressivo, senza dover giustificare questo istinto intrinseco di pura espressione del proprio essere.

Dalle comunità queer ai gothic punk, dai clubber 2000 ai fashion addicted, al Plastic c’è sempre stato posto per tutti. E adesso, che anche la mamma icona della nightlife milanese e italiana se ne va, cosa rimane? Abbiamo visto a fine agosto lo smantellamento dello storico centro sociale Leoncavallo, altro punto di riferimento della vita comunitaria milanese, molto diverso per storia e abitanti rispetto al Plastic, ma di certo simile nel saper offrire uno spazio in cui la socialità diventasse pratica quotidiana, la libertà un diritto da vivere e la creatività ed espressione artistica una lingua comune. La storia dei club e dei luoghi di aggregazione che chiudono in Italia conta, tristemente, numerose pagine nell’ultimo decennio. Siamo certi che ogni era abbia un ciclo, che si genera e si conclude per definizione, ma oggi, 5 settembre 2025, siamo in grado di identificare nei luoghi che viviamo quotidianamente qualcosa che, anche solo da lontano, possa avere l’aspetto di uno spazio comune dove i ragazzi, e non solo, possano esplorare, scoprire, sentirsi al sicuro? Per una città come Milano, che si erge sul cucuzzolo del glamour, dell’avanguardia e del cool da decenni, cosa può significare perdere un’istituzione che ha racchiuso per quarant’anni tutti questi concetti - e molti altri - come lo è stato il Plastic?

Non conosciamo le motivazioni della sua chiusura, ma facciamo davvero fatica a immaginare l’ideazione di un nuovo spazio simile nei prossimi anni a venire, a Milano o in qualsiasi altra città italiana. Il mio lavoro, per fortuna, mi permette di esplorare, di vivere realtà molto diverse tra loro, di parlare con persone che hanno ancora negli occhi quella scintilla di speranza che possiamo immaginare avesse Nicola Guiducci nell’80 quando decise di aprire il Plastic mettendo su - come descritto da lui in una vecchia intervista - una console e quattro casse. La verità è che questa scintilla, oggi, viene spesso spenta dall’impossibilità burocratica, legislativa ed economica del nostro Paese. Essere parte di una società che non ti permette di scovare il tuo posto nel mondo, sia la scoperta di esso attraverso la piazza, il club, o un qualsiasi centro di possibile aggregazione culturale, determina in modo piuttosto drastico una dipartita verso l’ignoto per le prossime generazioni, che faticano a appropriarsi di obiettivi e passioni, legandosi sempre di più al mero e rapido consumo, dimenticando, o addirittura non conoscendo mai, il senso di appartenenza comunitaria.

La scena elettronica, la comunità queer, punk, quella che vive i club e tutte le persone che hanno mai varcato l’ingresso del Plastic, non possono fare altro che esprimere gratitudine per ciò che il locale ha trasmesso e per il modo in cui, più o meno volontariamente, ha plasmato quarant’anni di vite e generazioni che l’hanno abitato.

Noi, di certo, non dimentichiamo e non vogliamo smettere di credere nello spirito e nella filosofia che ha divulgato in tutti questi anni, e che ha voluto affermare per l’ultima volta annunciando la sua chiusura sui social: Che la festa continui!

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