Intervista a LVCA: l'arte della metamorfosi
"Con il live è come trasmettere in un’ora la mia visione musicale in modo compatto ed energico, e credo che il pubblico lo percepisca, rispondendo con un tipo di attenzione e intensità diversa."
Cosa porta un artista a fare musica? Piacere o piacersi? Un po’ utopico come discorso, considerando che la società attuale mastica e sputa artisti quotidianamente, imponendo loro di piacere (a chi, poi?) prima di piacersi, destrutturando completamente anche il più piccolo briciolo di anima che li ha portati a scegliere la sciagurata vita da artista.
Alcuni di essi, però, hanno saputo costruire la propria carriera snocciolando completamente la questione, andando oltre il pubblico, oltre le mode, oltre le richieste della scena e restando semplicemente fedeli a se stessi e a ciò che, in quel momento della loro vita, stanno vivendo.
LVCA è, senza ombra di dubbio, uno di questi. Italiano trapiantato in Spagna, negli ultimi quindici anni ha solcato i booth dei club più importanti del mondo come DJ senza mai abbandonare lo studio, di cui ora porta direttamente con sé alcune parti quando è ospite in altrettanti club dove porta i suoi live act.
Ho conosciuto Luca per caso, a un matrimonio di amici in comune, senza sapere che fosse il cuore pulsante della musica che ascoltavo a quattordici, quindici anni, sognando Ibiza dal mio paesino di 200 abitanti, con un 50cc scassato e un lettore MP3 di fortuna. Quelli della mia generazione, amanti della musica elettronica ma in quegli anni un po’ spaventati dall’oscurità minimal berlinese su cui ci si era affacciati fino a ora, ricorderanno sicuramente tutta la wave degli anni ‘10 del 2000 che, a Ibiza, attraversava una fase di “hedonistic revival”. Uno dei portavoce ne fu proprio LVCA, ai tempi Luca Cazal, con gruppi come Infinity Ink e Hot Natured. In quegli anni l’Europa riscopriva il groove ‘80/’90, con codici di desiderio sonoro che viravano verso bassline rotonde, synth analogici caldi e una vena vocale quasi pop-psichedelica. Per chi cercava un po’ di aria fresca, quel sound era una vera e propria benedizione… Oggi, come ci spiegherà lui nell’intervista, quello spirito è inglobato dalla necessità di apparire, di piacere.
La musica continua ad abitarlo come allora, con la sola e unica esigenza di continuare a stupire se stesso, fuori e dentro lo studio, rimanendo così fedele alla sua passione. Sembra proprio questa la chiave per portare a qualsiasi tipo di pubblico (più o meno “underground”) un’espressione artistica di se stessi sempre nuova, reale e genuina. Ancorata alle proprie origini, ma tendente a un futuro e a un’evoluzione che non si limita al dover piacere.
Dare voce alla propria passione, creare progetti per farlo e coinvolgere artisti con cui condividere una visione: LVCA è lo specchio di tutto questo.
Con LVCA hai dato forma a una metamorfosi naturale, arrivata circa quattro anni fa, dopo anni di percorsi e identità diverse. Cosa ti ha spinto a cambiare pelle, passando dai tuoi alias e progetti precedenti (tra cui Luca C., Infinity Ink, Hot Natured e Luca Cazal) a LVCA?
Esatto, è qualcosa che è avvenuto in modo naturale. Nel tempo il mio percorso è sempre stato in continua evoluzione, forte anche dei miei gusti musicali molto ampi e di un mix di influenze che vanno in molte direzioni. Direi che è la ricerca che faccio e la musica che propongo nei miei DJ set a influenzare ciò che poi mi viene voglia di produrre.
Man mano che approfondisco nuovi stili, finisco spesso per diventare quasi ossessionato dal capirne la costruzione e dal creare la mia interpretazione personale.
È qualcosa che ho sempre fatto nel corso della mia carriera. Allo stesso tempo, tutte le influenze precedenti restano nella mia musica e si mescolano con le nuove. Ogni mia “nuova incarnazione” è la somma di tutto ciò che è venuto prima, arricchita dalle ultime sonorità che sto esplorando.
Secondo Discogs, la tua prima produzione risale al 2014, per Crosstown Rebels. Prima di arrivare all’elettronica il tuo percorso musicale era già attivo, orientato verso altri generi come il post punk e la new wave. Le tue radici continuano a influire sulla tua musica, l’ispirazione arriva da ciò che ti circonda quotidianamente o le tue produzioni e live sono un blend delle due?
In realtà, la mia prima produzione di musica elettronica risale al 2011, con il progetto Luca C & Brigante e il mini-album Luca C & Brigante presents Invisible Cities, uscito su Southern Fried Records, l’etichetta di Norman Cook, alias Fatboy Slim. Era un disco di sei tracce che esplorava sonorità baleariche, intrecciandole con influenze psichedeliche anni ’60 e un’elettronica di matrice anni ’80, forse perché ai tempi ascoltavamo molto le cassette del Cosmic di Daniele Baldelli. Sempre nel 2011 è uscito anche il mio primo vero disco house, Different Morals, ancora firmato Luca C & Brigante.
Prima di quel periodo, però, il mio percorso musicale era già molto attivo. Ho iniziato a pubblicare dischi alla fine dell’adolescenza, quindi nei primi anni 2000, e la mia ultima band prima di dedicarmi completamente all’elettronica - Cazals (2004-2008) - era sotto contratto con Kitsuné, l’etichetta francese di Gildas Loaëc, uno dei manager e membri del team dei Daft Punk e di Roulé Records.
La componente elettronica è sempre stata presente nella mia musica, anche allora. Con i Cazals utilizzavamo molti sintetizzatori e ci ispiravamo alla scena post-punk e new wave britannica degli anni ‘80. Arrivammo anche ad aprire alcune date del tour “Alive” dei Daft Punk nel 2007.
Ripensando alla domanda, sicuramente le mie radici nel post-punk e new wave continuano a influenzare profondamente le mie produzioni elettroniche di oggi. Cerco sempre di mantenere quel tocco umano con cui sono cresciuto suonando nelle band, ed è probabilmente per questo che i miei brani suonano spesso molto organici, anche quando sono completamente elettronici.
Anche la città in cui vivo è ovviamente una fonte d’ispirazione e influenza molto il modo in cui faccio musica. L’ispirazione è sempre un misto di ciò che mi circonda, di quello che accade nella mia vita, della musica che sto suonando in quel momento come DJ e delle macchine che sto utilizzando in studio. Nella mia vita ho abitato in quattro città molto diverse tra loro, Milano, Londra, Ibiza e Barcellona, ognuna con un carattere unico, che ha segnato e ispirato fasi differenti del mio percorso creativo.
Passare dalle borse dei dischi ai case delle macchine che usi nei club e festival per costruire i tuoi live, è un cambiamento che ha dato a una carriera come la tua - segnata da DJ set indimenticabili e B2B leggendari - un’evoluzione sorprendente. Come sei arrivato a questo punto?
In realtà il progetto live è nato un po’ per caso. Avevo appena realizzato un EP per Cymatix, l’etichetta delle mie amiche Anah e Lumiere, e mi è venuta l’idea di presentare i nuovi brani con un live show. In passato avevo già fatto dei live elettronici con il mio progetto Infinity Ink, ma questa volta l’ho strutturato in modo diverso: ho utilizzato macchine differenti, come la Roland 303, e ho aggiunto un sintetizzatore con vocoder con cui eseguo e improvviso alcune parti in tempo reale, non programmate. Il risultato è stato molto positivo, tanto che da lì si è trasformato in qualcosa di più stabile.
Non è mai stata una decisione consapevole quella di passare dal DJ set al live. In realtà continuo a fare entrambe le cose: semplicemente il live, essendo qualcosa di più unico e personale, negli ultimi due anni ha cominciato a essere richiesto sempre di più.
Come dicevamo, il cambiamento dalla borsa dei dischi ai case delle machine si fa sicuramente sentire durante i viaggi e gli spostamenti per le gig, ma senti questa differenza anche nell’interazione con il pubblico? Ti capita mai di sentire che il tuo setup ha un’influenza diversa sulla pista rispetto a un DJ set?
È una domanda che mi viene fatta spesso, e sì, credo che siano abbastanza differenti. Il live set è molto più breve rispetto a un DJ set - dura circa un’ora - ed è composto interamente da musica mia, quindi ha un’energia diversa. È più concentrato, più intenso, e anche a livello visivo il pubblico percepisce che sto suonando e improvvisando: c’è un’interazione diretta, quasi fisica, che crea un tipo di coinvolgimento diverso.
Nel DJ set, invece, c’è più spazio per dialogare con il dancefloor, per lasciarsi trasportare e rispondere all’energia del pubblico. Con il live, al contrario, è come trasmettere in un’ora la mia visione musicale in modo compatto ed energico, e credo che il pubblico lo percepisca, rispondendo con un tipo di attenzione e intensità diversa.
Raccontaci come prepari e lavori su un live set.
Cerco sempre di preparare il live set in base al tipo di evento in cui suonerò. Ci sono alcuni brani che inserisco quasi sempre, che rappresentano un po’ l’ossatura dello show. Ogni volta, però, mi piace aggiungere qualcosa di nuovo, oppure riscoprire vecchi pezzi che ho prodotto in passato e crearne versioni inedite per quel live specifico.
Dal punto di vista tecnico, il mio set unisce Ableton Live, macchine e una serie di effetti. Le tracce sono suddivise in stem che gestisco tramite un controller, mentre con un secondo controllo gli effetti e i volumi all’interno di Ableton.
Inoltre utilizzo un multi-effetto collegato ai send del mixer, per intervenire in tempo reale sulle diverse macchine e dare maggiore profondità e movimento al suono. Ho una drum machine per alcune sezioni ritmiche, una Roland 303 per le parti acid, e un Korg R3 con vocoder che utilizzo sia per improvvisare melodie sia per le parti vocali. Di solito inizio a provare qualche giorno prima del live, aggiungo nuovi elementi e inizio a fare jam per lasciare che il set prenda forma in modo naturale. Ma nella maggior parte dei casi, finisco per improvvisare direttamente sul momento, creando nuove linee melodiche sul synth e mescolando gli stem in modo diverso da come avevo pianificato
L’anno scorso è nata Orior, la tua nuova label. Parlaci della narrativa che segue questo progetto e da cosa è ispirata.
Orior (dal latino “sorgo”, “mi alzo”) è un progetto a cui tengo moltissimo. È nata come un’estensione naturale del mio percorso artistico, un modo per esprimermi in piena libertà, senza vincoli di genere e senza la pressione di dover compiacere nessuno. È lo spazio in cui posso condividere la mia visione della club music, attraverso la mia musica e quella di artisti che stimo.
Il nome stesso racchiude l’idea di resilienza e rinascita: Orior è una celebrazione del rialzarsi, del continuare a creare e a credere nella propria visione, anche di fronte alle difficoltà.
Siamo appena arrivati alla seconda uscita, e sono davvero felice del riscontro che stiamo ricevendo. Credo che le persone percepiscano la sincerità del progetto.
Ci sono machine e strumenti a cui sei particolarmente affezionato? Perché?
Sì, assolutamente. Ad alcune non sono solo molto legato per il suono, ma anche per il percorso che rappresentano. Il Juno-60, per esempio, è una di quelle che uso da sempre: ha una musicalità e un calore che per me restano insuperabili. Poi ci sono strumenti come l’SH-101 o la TB-303, che hanno un carattere fortissimo e sono parte del mio linguaggio musicale. Con loro ho costruito gran parte della mia identità sonora, quindi più che strumenti, li considero veri e propri compagni di viaggio. Un’altra che devo assolutamente menzionare, e di cui non potrei fare a meno, è il mio MPC-2000, che uso principalmente per il sequencing delle batterie, sia con i campioni interni, sia per sequenziare drum machine come la TR-909 o la TR-707.
Negli anni, essendo sempre stato un produttore legato all’hardware, ho comprato e venduto tante macchine, ma alcune sono sempre rimaste, e queste quattro non se ne sono mai andate.
Un artista come te, che mastica la cultura del clubbing da oltre quindici anni, cosa vede nella scena elettronica attuale? Soprattutto in quella spagnola, che sembra essersi spostata verso la ricerca di spazi e artisti che abitano e respirano i club più intimi e le produzioni più underground.
È vero, negli ultimi anni ho notato un ritorno molto forte all’essenza del clubbing, a una dimensione più intima e autentica che per un periodo si era un po’ persa. In Spagna, per esempio a Barcellona, ma anche in altre città come Valencia e nei paesi Baschi, c’è una nuova generazione che sta riscoprendo il valore dei piccoli spazi, dei sound system e dell’esperienza condivisa in modo più profondo. Io stesso mi sento più vicino a quel mondo: club piccoli, gente che va per ascoltare. È lì che, secondo me, il clubbing torna ad avere un senso culturale.
Allo stesso tempo, a Ibiza vedo l’esatto opposto: un’omologazione della musica, la quasi scomparsa di qualsiasi realtà underground e di qualunque tipo di ricerca musicale. Tutto ormai ruota intorno ai grandi eventi e, senza una reale cura delle line-up, la musica viene consumata come parte di uno show. Anche negli after, ormai da anni, spesso si sente la stessa musica che si trova nei club.
Vorrei vedere un ritorno alle origini di quest’isola, non solo in termini di musica, ma anche di attitudine e del modo di proporre questa musica alle persone: con autenticità, visione e rispetto per ciò che Ibiza è sempre stata, un melting pot di culture, stili, artisti e spiriti liberi. Un luogo dove convivevano tutte le classi sociali, unite dalla musica e dalla libertà di esprimersi, prima che la cultura VIP prendesse il sopravvento.
A proposito, la Spagna è casa tua da ormai tanti anni. Credi che oggi abbia ancora influenza sulla tua produzione? E se sì, in che modo?
Sì, all’inizio ho vissuto a Ibiza, e in quel periodo sono stato influenzato dal tipo di feste in cui suonavo. Sono stato resident al DC10 per anni, e il mio suono allora era decisamente più house.
Quando mi sono trasferito a Barcellona, ho riscoperto le mie influenze New Wave, post-punk e Italo, e la città con la sua storia legata a quel tipo di musica ha sicuramente contribuito a quel cambiamento.
Negli ultimi anni ho anche conosciuto altri artisti sulla mia stessa lunghezza d’onda, come i ragazzi di Veintidos Recordings, con cui ho collaborato su diversi remix e brani, e con cui ho in uscita un EP a breve.
A proposito di produzioni, cosa ti muove di più in studio? La voglia di continuare a fare ballare le piste di tutto il mondo o il piacere di incontrare l’orecchio attento di un digger appassionato?
Onestamente, nessuna delle due cose.
Quello che mi muove in studio - potrei definirlo egoista - è il bisogno di piacere a me stesso, di creare qualcosa che amo davvero.
Se poi quel brano farà muovere una pista o attirerà l’attenzione di un digger appassionato, ben venga, ma mi interessa fino a un certo punto.
Alla fine voglio solo fare qualcosa che amo, semplicemente.
Non lo definirei egoista, ma piuttosto un atto d’amore costante verso te stesso. Forse, il fatto che durante la tua carriera hai esplorato sound diversi e sempre in evoluzione è dovuto anche a questo. Oggi c’è qualcosa a cui ancora non ti sei approcciato e che vorresti conoscere più da vicino?
Ho recentemente partecipato a delle sessioni in Italia organizzate da Sony Italia, insieme a producer e beatmaker legati al mondo del rap, trap ed elettronica pop.
È un contesto che non conoscevo e che sto scoprendo ora, e devo dire che ci sono realtà davvero stimolanti.
Mi sono divertito molto a fare qualcosa di completamente diverso da ciò che ho sempre fatto, ed è sicuramente un ambito che mi piacerebbe approfondire. Mi piace uscire dalla mia comfort zone e mettermi in gioco, perché è lì che spesso nascono le idee più fresche.
Attualmente il mercato della scena elettronica sembra essere un po’ saturo e, sotto alcuni punti di vista, anche un po’ piatto. Cosa hai visto cambiare negli anni della tua carriera e cosa diresti a qualcuno che vuole affermarsi nel panorama underground di oggi?
Credo che oggi ci sia troppa strategia dietro la musica. Molti producono con un piano preciso in mente, vogliono uscire su una certa etichetta per poi fare un certo passo nella carriera. Tutto è diventato molto costruito, e si è un po’ persa quell’innocenza che prima caratterizzava la scena.
Anche i social media hanno contribuito a questo. Ormai tutto è pianificato, pieno di strategie e scambi di favori… DJ e promoter che si invitano a vicenda alle proprie serate, così uno suona alla festa dell’altro e cose simili. Alcuni hanno basato intere carriere su questi meccanismi, più che sulla musica. Sembra conti di più chi conosci e come ti muovi sui social, piuttosto che ciò che proponi artisticamente. E questo, secondo me, è uno degli aspetti che sta appiattendo la scena.
Detto questo, ci sono ancora casi in cui qualcuno riesce davvero a proporre qualcosa di unico, e per fortuna, venire riconosciuto a certi livelli. A chi oggi vuole affermarsi nella scena underground direi semplicemente di lavorare con dedizione, di coltivare la propria identità e di diventare artigiani della propria arte, nel senso di curare ogni dettaglio e mettere se stessi in ciò che si fa. Per me l’underground è un’attitudine, non un genere: è il modo in cui scegli di fare le cose, la coerenza con cui porti avanti la tua visione. Non seguire le regole del mercato, segui la tua direzione. Se ci sono talento, sincerità e costanza, prima o poi tutto trova il suo spazio.
Cosa vede LVCA oggi nella sfera di cristallo?
Dal punto di vista discografico, il progetto principale su cui sto lavorando in questo momento è un album che uscirà come LVCA and the Naked Moon. The Naked Moon è la mia “band”, tra virgolette, perché sì, è un mio album, ma coinvolge tantissimi collaboratori. Il 90% dei brani include vocalist, co-produttori, e musicisti diversi, molti dei quali hanno fatto parte del mio percorso negli ultimi vent’anni.
È un progetto molto ambizioso, a cui sto lavorando da tempo: sono già oltre la metà del processo e ne sono davvero entusiasta.
Parallelamente sto preparando nuova musica sulla mia label, Orior, continuando a portare avanti la mia visione della club music attraverso collaborazioni e mettendo in luce artisti che amo e che meritano più visibilità.
La prossima uscita è una collaborazione tra me e l’artista statunitense Seven Davis Jr., che ascolto e ammiro fin dai suoi primi lavori su Ninja Tune. Per me è un vero visionario della musica house.
Per quanto riguarda i live, ho in programma alcuni show speciali, ma sicuramente ci sarà anche un ritorno al DJ set, che mi è mancato molto dopo questi ultimi due anni passati a suonare quasi esclusivamente live.
