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Dentro il disco: Lorenzo Aribone ci racconta il suo EP “Mind Hunter” su Outcast Planet

Con questo nuovo EP, Lorenzo Aribone segna un passaggio fondamentale della sua carriera artistica, esplorando nuove sonorità e approcci alla produzione.

  • Alessandra Sola
  • 10 November 2025
Dentro il disco: Lorenzo Aribone ci racconta il suo EP “Mind Hunter” su Outcast Planet

Venerdì 7 novembre è uscito Mind Hunter EP di Lorenzo Aribone, nuova uscita su Outcast Planet, la label torinese che negli ultimi anni si è affermata come uno dei progetti più solidi e coerenti della scena internazionale.

Classe giovane ma già con una visione matura, Lorenzo incarna lo spirito Outcast alla perfezione, attraverso la sua ricerca affinata e la tensione costante verso un’identità sonora personale. Negli ultimi tre anni ha portato la sua musica in giro per il mondo, dagli showcase europei ai tour oltreoceano, e tutte queste esperienze sembrano aver lasciato un’impronta profonda nel suo modo di produrre: un equilibrio sottile tra introspezione e groove, tra impulso analogico e costruzione mentale.

Con Mind Hunter, Lorenzo apre una nuova fase del suo percorso artistico, dove la melodia incontra la materia e il dancefloor diventa un nuovo spazio di esplorazione emotiva. L’EP si muove tra luci e ombre, con tracce che raccontano la sua evoluzione artistica, la devozione a chi per lui c’è sempre stato (e no, non parliamo solo di musica!) e la libertà di uscire dai propri schemi. Un lavoro che, più che cercare risposte, prova a fissare sensazioni: il bisogno di esplorare, di spingersi oltre, di lasciare un segno autentico nella scena elettronica contemporanea.

Per capire un po’ più a fondo cosa c’è dietro questo disco, abbiamo fatto quattro chiacchiere proprio con Lorenzo, che ci ha trasportato nell’universo che c’è dentro Mind Hunter, riflettendo sull’importanza di trovare equilibri e la propria voce attraverso il giusto sound. Sembra un bel casino, ma raccontato da Lorenzo suona molto più naturale di quanto possiamo pensare. Perché, alla fine, siamo tutti un po’ cacciatori di menti oggi… o forse no?

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1. Partiamo dalla label, Outcast Planet. Come nasce questo progetto e come credi si ponga rispetto a quello che vedi oggi nella scena elettronica?

Outcast Planet nasce come il coronamento di anni di ricerca sonora e musicale, portata avanti anche indirettamente all’interno del collettivo Outcast. Fin dall’inizio c’è sempre stata l’idea di creare un’etichetta discografica, ma il progetto ha preso forma solo col tempo, mano a mano che ciascuno di noi ha affinato le proprie tecniche di produzione e accumulato esperienza. A un certo punto è maturata anche la voglia di far uscire la propria musica attraverso un canale indipendente, per arrivare alle persone con un’identità precisa e riconoscibile.

Rispetto a ciò che vedo oggi nella scena elettronica, credo che questo progetto abbia assunto un’importanza sempre maggiore proprio perché si è creata un’aura particolare attorno a un suono molto caratteristico, quello che rappresenta noi di Outcast. Pur essendo diversi nelle nostre produzioni, condividiamo da anni la stessa passione e lo stesso percorso musicale, e questo ci ha inevitabilmente influenzati a vicenda. È come se, in modo naturale e indiretto, fosse nato un linguaggio comune che oggi identifica un certo tipo di sound che, per alcuni, è diventato rappresentativo della scena torinese.

2. Ed ecco quindi che questa espressione, per te, si tramuta in “Mind Hunter”. L’EP suona come un viaggio introspettivo, ma anche come un’indagine sonora. Cosa stavi cercando di “catturare” nella mente, o nella musica, durante la costruzione dell’EP?

Nel percorso produttivo di questo disco ho avuto influenze diverse dal solito. I miei ultimi lavori erano più legati alle sonorità tipiche della mia label, The Mask, quindi un sound più scuro e vicino alla techno. Con questo EP invece ho voluto sperimentare, perché le tracce che avevo fatto in precedenza non appartenevano a questa tipologia.
Ho cercato di spingermi oltre, sia a livello sonoro che di costruzione dei brani, orientandomi verso un suono più fresco, più house, qualcosa che potesse arrivare a più persone rispetto alle atmosfere più di nicchia e oscure che caratterizzano la mia etichetta.

Ho cercato quindi di trovare un equilibrio tra un suono più scuro e introspettivo e uno più colorato e luminoso. Infatti, nell’EP ci sono due tracce che rispecchiano il mio stile abituale e altre due che si spingono oltre, verso un qualcosa di più nuovo e più aperto, con quell’attitudine housey che avevo appunto voglia di esplorare.

3. Infatti possiamo dire che i suoni dell’EP oscillano tra controllo e impulso, tra groove e tensione. Che tipo di processo mentale o emotivo c’è dietro queste scelte? Ti muovi più per istinto o per costruzione?

Posso dire di essere sempre alla ricerca di un equilibrio, in qualsiasi produzione. Di solito parto da alcune idee o concetti che ho già in mente, una sorta di direzione mentale che mi guida verso un certo tipo di traccia o di suono. Allo stesso tempo però lascio spazio alla sperimentazione: se durante la produzione nasce qualcosa di casuale che funziona, non lo ignoro, anzi, lo esploro e spesso finisce per diventare un elemento determinante del brano.

Mi capita spesso di cambiare idea lungo il percorso, ma per questo disco ho cercato fin dall’inizio di avere le idee più chiare su dove volevo arrivare. Direi quindi che anche qui il balance tra un processo creativo spontaneo e uno più strutturato è ciò che ha davvero definito l’identità di questo EP.

4. In un’epoca di preset e produzioni digitali, la materia sonora dell’EP sembra molto fisica. Puoi raccontarci quali macchine o strumenti hanno avuto un ruolo chiave e perché?

Per quanto riguarda i suoni, ci sono alcune macchine che utilizzo quasi sempre e che ormai mi rappresentano: la Yamaha DX7, il Korg Monopoly e il MicroKorg. Sono strumenti che sento miei, sia per il tipo di timbro che per il modo in cui mi permettono di costruire le atmosfere dei brani.

Questo EP nasce proprio da un mix di queste macchine e di diversi campioni di batterie e drums che ho raccolto e selezionato nel tempo. Dentro ci sono elementi classici come la 909 e la 808, ma rielaborati e modificati a modo mio, fino a farli suonare più personali. È un lavoro di stratificazione e manipolazione continua, dove ogni suono diventa un tassello di un linguaggio che sto cercando di definire sempre di più.

5. I titoli delle tracce sembrano tasselli di un linguaggio personale. Come nascono?

Mi sento di dire che rappresentano un’estensione di quella che è la mia vita fuori e dentro lo studio. La prima, Tribute to the Boss, è una dedica a Salvatore [Ficara, fondatore e manager di Outcast, ndr.], un omaggio al legame di amicizia e collaborazione che ci unisce, sia sul piano umano che professionale.

La seconda traccia invece si chiama Shadow, che significa ombra. L’ho scelta proprio per richiamare quel ritorno a un suono più oscuro e profondo, che rimanda ai miei lavori precedenti e al mio stile originario. È una traccia costruita su bassi più grezzi e drum più sporche, con un’atmosfera che affonda volutamente nelle zone meno illuminate del mio immaginario sonoro.

Le ultime due tracce, invece, prendono il titolo direttamente da parole o vocal presenti al loro interno: le ho chiamate così perché quei frammenti vocali sono diventati parte integrante del ritmo e dell’identità del brano stesso.

6. L’EP trasmette una tensione quasi cinematografica. Ci sono immagini, luoghi o momenti precisi che hanno influenzato questo lavoro? Quali sensazioni volevi fissare dentro il suono?

All’interno del suono di questo EP ho voluto fissare delle sensazioni molto precise, nate anche dal periodo in cui il disco è stato concepito. La prima traccia, in particolare, è stata la prima che ho composto, subito dopo il mio tour americano dello scorso anno. Ero appena tornato, a fine dicembre, e sentivo il bisogno di trasformare in musica tutto quello che avevo vissuto: le emozioni, la stanchezza, la malinconia ma anche la gratitudine per un’esperienza che mi aveva lasciato tanto.
Quella traccia rappresenta quindi una sorta di coronamento emotivo, un modo per metabolizzare il ritorno a casa dopo un viaggio intenso. È anche il motivo per cui l’ho dedicata a Salvo, perché in qualche modo racchiudeva il senso di appartenenza e il legame con la mia cerchia più vicina. La melodia stessa nasce da questo stato d’animo, ed è costruita per trasmettere quella stessa sensazione a chi l’ascolta, un misto di nostalgia e calore, di chiusura e di ripartenza...

Le altre tracce invece hanno un carattere diverso: la A2 e la B2 sono più grintose, più orientate al groove e alla pista, mentre la B1 torna a muoversi su toni più sospesi e riflessivi. Parte con una spinta ritmica, ma a metà si apre una pausa in cui entra una melodia malinconica ma luminosa, come se volesse lasciare all’ascoltatore un momento di introspezione. In fondo, il mio intento con questa melodia era proprio questo: creare uno spazio emotivo, un punto di equilibrio tra tristezza e serenità, dove la musica diventa un modo per fissare una sensazione prima che svanisca.

7. Spesso un disco segna un prima e un dopo, anche se non ce ne accorgiamo subito. Cosa ha cambiato “Mind Hunter” in te, nel tuo modo di produrre o di intendere la musica?

Sì devo dire che questo disco ha cambiato molto il mio approccio alla produzione. Mi ha permesso di uscire dagli schemi sonori che solitamente mi caratterizzano e di lavorare in modo diverso, più aperto alla sperimentazione. È stato un passaggio importante perché mi ha dato nuova energia, uno slancio creativo che mi ha spinto a non focalizzarmi su un’unica direzione, ma a lasciarmi ispirare da tutto ciò che mi circonda.

Anche come DJ e collezionista di dischi ho sempre avuto un gusto ampio, mi piace spaziare tra i generi, scoprire connessioni e contrasti. Non mi riconosco in una sola etichetta sonora: preferisco prendere il meglio da ogni influenza che mi colpisce e trasformarla in qualcosa di personale.
Con questo EP credo di essere riuscito a mostrare un lato di me che forse non era ancora emerso, una parte più libera e curiosa del mio percorso musicale. Ed è proprio questo, per ora, il valore più grande che questo disco mi ha lasciato.

8. Se dovessi riassumere il contributo che vuoi lasciare con questo EP alla scena di oggi, quale sarebbe? Una direzione, un sentimento, o magari una domanda aperta?

Con “Mind Hunter” spero di far trasparire la dedizione, l’impegno e il lavoro costante che metto nella musica, ma soprattutto l’amore profondo che provo per quello che faccio. Come in ogni percorso ci sono difficoltà e momenti complessi, ma ciò che mi interessa davvero è che questo arrivi all’ascoltatore: che chi ascolta possa percepire una parte autentica di me, non solo come artista, ma anche come persona.
Il mio obiettivo è che da questo disco emerga un prodotto di qualità, costruito con cura, che possa resistere nel tempo e lasciare qualcosa di tangibile. In fondo, quello che voglio trasmettere con le mie tracce è proprio questo: la mia identità, le mie emozioni e la mia visione, raccontate attraverso il linguaggio più sincero che conosco, che è la musica.

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