Intervista agli organizzatori di Milano Record Fair: back to the hands, back to the roots.
Sabato 11 e domenica 12 ottobre a Milano torna la terza edizione della fiera del disco pensata per chi vuole toccare il suono con mano.

In un’epoca in cui tutto è digitale, veloce e temporaneo allo stesso tempo, che valore ha un disco che passa di mano in mano?
Credo che più o meno sia stata questa la domanda che si sono fatti Edoardo, Federico e Filippo, gli organizzatori della Milano Record Fair che prenderà piede con la sua terza edizione sabato 11 e domenica 12 ottobre ad Arca Milano, in via Rimini 38. Chiunque approcci il mondo del vinile, probabilmente non sta cercando solo un suono, ma un contatto: con la materia, con la storia, con chi quella musica l’ha toccata prima. Il disco rappresenta un linguaggio vivo, fatto di gesti, di silenzi, di comunità. È un modo di ascoltare più che di possedere, una pratica che costringe a rallentare e che va oltre il semplice “sentire la musica”.
È da questa urgenza di tornare alla fisicità del suono e alla sua dimensione collettiva che nasce Milano Record Fair, un progetto che riporta il vinile al centro del dialogo culturale, trasformando la fiera in uno spazio aperto, inclusivo e pulsante, dove la musica torna a essere incontro, memoria e scambio. La filosofia dietro MRF è portare il disco a tutti: agli appassionati e addetti ai lavori, ma anche ai curiosi, a chi di vinili non sa un granché e a chi vorrebbe saperne di più.
L’idea di creare una comunità quanto più varia e accessibile, sia per quanto riguarda l’aspetto economico che per quello culturale, viene proprio dall’amore profondo per la musica del team e dal rispetto del suo supporto fisico: il disco.
Milano Record Fair non è solo vendita, ma anche workshop, DJ set, talk: una vera e propria immersione nel mondo del disco adatta a chiunque. Ci siamo fatti raccontare direttamente da Edoardo, Federico e Filippo i dettagli di questo progetto che, già alla sua terza edizione, si sta trasformando in un riferimento reale per la comunità del vinile.

Raccontateci come è nato il progetto e quale è stata la scintilla o l’avvenimento specifico - se ce n’è stato uno - che vi ha fatto desiderare e poi creare la Milano Record Fair.
Il progetto è nato in maniera molto naturale, quasi inevitabile. Sentivamo che a Milano mancava uno spazio dove il vinile potesse essere celebrato non solo come oggetto da collezione, ma come strumento vivo, che genera incontro e scambio. La scintilla è stata proprio questa: la voglia di creare un luogo libero, aperto, dove le barriere tra generi, background e pubblici si sciolgono davanti alla musica.
Le menti e braccia dietro Milano Record Fair sono quindi tre, due con background molto simili e legati all’elettronica e uno che viene da una realtà un po’ più street, legata all’hip hop. Come comunicano questi mondi e in che modo si alimentano per dare origine a un progetto come il vostro?
La bellezza sta proprio lì: mettere insieme esperienze diverse e farle dialogare. L’elettronica e l’hip hop hanno radici comuni, entrambe nascono dall’underground e dalla cultura del campionamento, dal riuso, dalla contaminazione. Quindi non ci vediamo come mondi separati, ma come flussi che si intrecciano: il ritmo della cultura hip hop e la ricerca sonora da club si alimentano a vicenda e danno forza al progetto. Poi, oltre alle ‘menti’, però servono anche le ‘braccia’. In questo i ragazzi di Arca Luca e Fossa sono stati, e continuano a essere, fondamentali: non solo ci hanno fatti incontrare e affiancato nella cura del progetto, ma ci hanno sostenuti in modo concreto, mettendo a disposizione venue e supporto logistico. Credono nella nostra visione e ci aiutano a renderla possibile nonostante il budget ridotto. Senza di loro, questa fiera non esisterebbe.

La Milano Record Fair nasce dal desiderio di “ribaltare” certe dinamiche del digging e del collezionismo. All’alba della terza edizione, qual è l’aspetto che vi sembra possa incuriosire maggiormente le persone che sono fuori dal mondo del vinile?
Crediamo che l’aspetto più intrigante per chi non è dentro la cultura del vinile sia proprio il lato esperienziale: toccare i dischi, scoprire copertine, annusare le storie che portano con sé. Il vinile è un oggetto fisico che ti costringe a rallentare, ad ascoltare davvero. Questo, in un’epoca di ascolto liquido e distratto, è qualcosa che sorprende anche chi non è un collezionista.
Il progetto nasce al di fuori delle logiche di profitto. In un panorama in cui tutto diventa “evento”, “brand”, “experience”, come fate a proteggere l’anima underground di Milano Record Fair, mantenendola radicata al mondo della musica e lontana da quello del business?
Il modo migliore per restare fedeli all’anima underground è ricordarsi sempre perché lo facciamo: per la musica, non per il business. Non abbiamo sponsor invasivi, non cerchiamo format da “evento instagrammabile”. Lavoriamo con la community, lasciamo che siano i dischi, i DJ, i collezionisti e i curiosi a costruire la narrazione. È un patto etico: Milano Record Fair resta un luogo libero proprio perché non è pensato per monetizzare, ma per connettere.
Il collezionista tradizionale vuole possedere, custodire, escludere. La vostra filosofia invece sembra virare verso fronti diversi: aprire, condividere, contaminare. Quanto è difficile scardinare questa mentalità dentro la scena del vinile?
Non è semplice, perché il collezionismo tradizionale è spesso un mondo chiuso. Ma la nostra filosofia è l’opposto: aprire i vinili, farli girare, lasciare che passino di mano. Ci piace l’idea che un disco che oggi è nella tua collezione, domani possa essere in quella di qualcun altro e raccontare nuove storie. È un lavoro culturale, quasi politico, ma ogni volta che vediamo persone condividere senza gelosia, capiamo che la strada è giusta.

Non vi siete limitati a una fiera di dischi “classica”, ma avete aggiunto workshop, talk, DJ set e momenti di approfondimento tecnico. In che modo scegliete questi elementi per contribuire a cambiare la percezione del vinile in chi vi partecipa?
Workshop, talk e dj set non sono “extra”, sono parte integrante del progetto. Il vinile non è solo un oggetto, è un ecosistema di pratiche, di gesti, di saperi. Scegliamo ogni elemento cercando di aprire prospettive diverse: dal lato tecnico al lato creativo, dal racconto storico al futuro digitale. Ogni incontro diventa un invito a vedere il vinile non come reliquia, ma come strumento vivo e attuale.
Parlando con Federico del vostro progetto, è tornato spesso il concetto di accessibilità: portare il vinile fuori dall’élite dei “nerd” e dei DJ per renderlo esperienza comune. Per voi, che vivete questa cultura dall’interno, cosa significa concretamente rendere accessibile il vinile a tutti?
Accessibilità significa togliere al vinile quell’aura di esclusività. Per noi vuol dire organizzare eventi gratuiti o a basso costo, creare momenti di scambio informale, far suonare i dischi in strada, renderli tangibili anche a chi non ha mai comprato un vinile in vita sua. Il vinile non è solo per DJ o nerd: è un ponte tra generazioni, tra culture, tra persone. L’accessibilità è il cuore del progetto, perché la musica ha senso solo se è di tutti.
