Dentro il disco: Soul Speech aka Riva Starr ci racconta il nuovo progetto OPENEYE
Con il ritorno di Soul Speech e la release d’esordio del 13 novembre “Break The Rules (For You)” insieme ai King No-One, Riva Starr inaugura OPENEYE: uno spazio dedicato alla sperimentazione, alla collaborazione e a una musica libera da pressioni numeriche.
Dopo oltre vent’anni di carriera trascorsi a muoversi senza confini tra club culture, produzione elettronica e collaborazioni trasversali, Stefano Miele aka Riva Starr apre un nuovo capitolo del suo percorso artistico. Si chiama OPENEYE, ed è la sua nuova label: uno spazio pensato per dare forma a una visione più ampia, libera e profondamente musicale, lontana dalle logiche dell’algoritmo e dalle pressioni del mercato.
Il progetto prende vita attraverso il ritorno di Soul Speech, alias storico che Stefano Miele riattiva oggi come contenitore ideale per esplorare territori sonori meno legati al dancefloor e più vicini alla scrittura, all’incontro umano e alla sperimentazione. Un nome che torna a parlare di canzoni, storie e linguaggi emotivi, senza rigidi confini di genere.
La prima uscita di OPENEYE è “Break The Rules (For You)”, realizzata insieme alla band indie di Leeds King No-One: una traccia che guarda apertamente alla new wave e all’estetica degli anni Ottanta, attraverso una lente post-punk che trova il suo equilibrio tra trazione emotiva e produzione contemporanea. Un manifesto chiaro dell’identità della label, che sceglie di partire da un suono non immediatamente riconducibile alla club music per parlare al pubblico fin da subito della propria direzione.
Abbiamo parlato con Stefano Miele del ritorno del suo pseudonimo Soul Speech proprio per OPENEYE, del valore della collaborazione, della scrittura come atto di resistenza e di cosa significa oggi fare musica restando fedeli a se stessi, dopo decenni di palchi, studio e trasformazioni.
Sembra OPENEYE voglia aprirsi a nuove frontiere musicali, anche diametralmente opposte a quelle classiche della musica elettronica, e soprattutto alla nuova generazione di artisti che parte dalle “basi”. Raccontaci il perché di questa tua direzione.
Sono sempre stato un ascoltatore molto curioso e onnivoro: ho ascoltato musica di tantissimi stili diversi e non mi sono mai fermato a un solo genere. Negli ultimi anni mi sono ritrovato a lavorare sempre di più con altri musicisti e cantanti. L’ho sempre fatto, ma quando ho iniziato a concentrarmi maggiormente su una dimensione più club avevo un po’ limitato le collaborazioni.
Adesso invece ho riscoperto il piacere di fare musica insieme ad altri musicisti, autori e cantanti, tutti nella stessa stanza. Da lì è nata l’idea di creare un’etichetta e di approfondire quel percorso che poi è diventato OPENEYE.
La label nasce proprio dal fatto che sono sempre stato piuttosto eclettico nel mio sound. Ho iniziato come DJ passando dallo ska e dal pop al rock, per poi arrivare alla jungle, al big beat, all’electro. Sono sempre stato un po’ sui generis: non sono mai stato un DJ house o techno purista, ho sempre mischiato molto. Nel 2013 ho fatto un album, Hand in Hand, che già testimoniava la voglia di collaborare, anche con artisti italiani come Carmen Consoli, Capossela o i Sud Sound System.
Questa esperienza mi ha fatto rendere conto, però, che poteva risultare un po’ confusionario produrre tutto sotto lo stesso nome. Per questo ho creato OPENEYE, per sviluppare tutte queste nuove produzioni con il progetto Soul Speech.
Quindi si può dire che la nascita di OPENEYE coincida con il ritorno del tuo alias Soul Speech. Come mai? Che cosa rappresenta oggi per te rispetto al passato?
Sì, esatto. In passato Soul Speech era un progetto legato a sonorità house più classiche, con influenze gospel e collaborazioni di quel tipo. Poi però gli orizzonti sonori di Riva Starr si sono allargati, e non aveva più senso separare rigidamente le cose: facevo brani sempre più cantati, collaboravo con artisti come Calvin Harris, Diplo, Chris Lake, e così Soul Speech era stato messo un po’ in pausa.
Ho deciso di riprenderlo perché il progetto mi è sempre piaciuto molto, a partire dal nome, che trovo estremamente coerente con l’idea di scrivere canzoni, raccontare storie e parlare anche un linguaggio più emotivo e spirituale, senza essere troppo rigidi o schematici.
In quest'ottica, “Break The Rules (For You)” è il primo tassello della label, con un’identità molto chiara: new wave, 80s, un'energia più emotiva che da club. La scelta di riaccendere l’attenzione su quel sound del passato da dove viene? Può avere a che fare con il tuo interesse di “educazione musicale” per le nuove generazioni?
Per quanto riguarda Break the Rules, sicuramente ha influito la collaborazione con i King No-One. Sono un grande fan di Smiths, Joy Division, New Order e di tutto quel periodo anni Ottanta, e questa traccia porta con sé quell’immaginario. Non voglio però “ingabbiare” il suono dell’etichetta: OPENEYE sarà un’etichetta di sperimentazione, sempre aperta a sound diversi. Le nuove generazioni spesso conoscono poco quel tipo di musica, e a me fa piacere anche sensibilizzare e far scoprire quell’epoca attraverso i social e le produzioni.
A proposito di nuove generazioni, com’è nata la collaborazione con i King No-One? Cosa ti ha colpito di loro al punto da renderli parte della release d’esordio della label?
I King No-One sono davvero molto bravi, e il cantante in particolare, Zach Lount, con cui ho scritto insieme a Prentice Robertson e Mafro, mi ha colpito per il timbro vocale, molto vicino a quelle influenze. È stato naturale seguire quella direzione, e ci siamo divertiti tantissimo.
Nel comunicato stampa che annuncia “Break The Rules (For You)” parli di una musica “senza pressione da numeri, algoritmi o viralità”, che comunque è stato sempre un po’ il fil rouge di tutta la tua carriera. Come si crea concretamente uno spazio così?
Fare musica senza la pressione degli algoritmi o della viralità oggi è quasi utopico, ma credo si possa trovare una via di mezzo creando una propria community: attirare persone sensibili alla musica come espressione artistica e comunicativa. È quello che vogliamo fare anche attraverso i testi e l’incontro umano durante le sessioni.
Da sempre, il tuo modo di fare musica riflette sia le tue origini napoletane che la tua internazionalità dovuta ai migliaia di stage che hai abitato in tutto il mondo. Quanto il progetto della nuova label si basa su questa doppia influenza?
Rispetto alle mie origini napoletane, non posso prescinderne. Magari non emergono in modo diretto, ma l’interdisciplinarietà e l’apertura totale alle influenze fanno parte di quella cultura e si ritrovano anche in questa etichetta. Stiamo persino pensando di portare alcuni progetti live, ma è ancora una fase molto preliminare.
Dove cerchi musica e ispirazione oggi? Cosa ti stupisce e cosa ti annoia?
L’ispirazione può arrivare da qualsiasi parte: ad esempio sono stato a visitare la mostra sul Blitz Club, il club londinese nato a Covent Garden e legato a figure come il cantante dei Visage, che diede vita a un intero movimento con gli Spandau Ballet, Boy George e vari stylist. È stata una grande fonte di ispirazione, e l’ho visitata proprio nel periodo di uscita di Break the Rules: i due momenti si sono sovrapposti perfettamente.
Quello che mi annoia nella musica è la furbizia e la pigrizia. Con tutti questi nuovi mezzi è facile diventare pigri, e a me questo annoia moltissimo. Anche quando ascolto demo per Snatch!, mi bastano pochi secondi per capire se un pezzo ha potenziale: se è fatto senza cura, non fa per noi.
Ci sono delle cose che sono rimaste invariate nel tuo modo di produrre dall’inizio della tua carriera a oggi? Machine a cui sei più affezionato, modi di approcciare lo studio, strumenti immancabili… E uno o più dischi che ti hanno segnato e che continui a proporre?
Il mio modo di produrre non è mai cambiato: lavoro sempre con le macchine, ho un approccio molto analogico anche nel mixaggio. Sono “pochi ma buoni”, spero, e uso molte tastiere analogiche, alcune le ho dalla fine degli anni ’90. Non credo che questo cambierà mai: non riesco a fare tutto solo “in the box”.
Dischi? 3 Feet High and Rising dei De La Soul ce l’ho stampato nel cervello
In un mercato così saturo e ricco di alternative, cosa credi che possa far emergere un buon DJ o produttore che sta iniziando?
Il mercato moderno è ricchissimo di alternative, ma anche molto caotico, e spesso dominato dalla viralità. Oggi può funzionare chiunque, anche un personaggio televisivo che decide di fare il DJ. Per chi inizia ora, trovare il proprio suono, essere originali, comunicativi e riconoscibili è fondamentale. E anche lavorare sui social, trovando il giusto equilibrio, perché è lì che le persone scoprono la musica, i club, gli eventi.
In un tuo post su Instagram racconti di come a volte sia difficile essere un DJ oggi, nell’era dei social e in quella in cui il DJ diventa più uno showman che il “veicolo” - passami il termine - per scoprire nuova e vecchia buona musica. C’è mai stato un momento in cui hai creduto che questo passaggio fosse troppo per te o in cui hai pensato di mollare?
Penso spesso che questo passaggio sia un po’ eccessivo per me, forse anche per una questione generazionale. Però credo anche che il clubbing abbia tante sfaccettature e che chi oggi ascolta certi suoni, possa maturare e cercare altro in futuro.
Io stesso ho ridimensionato il touring: meno date e più produzione. Voglio fare solo cose che rispecchino davvero quello che voglio trasmettere nel club. Credo che il DJ sia anche un intrattenitore, e in un certo senso persino un educatore: attraverso la ricerca musicale racconta storie nuove a chi va a ballare. Questo mi dà fiducia e speranza per il futuro.
Guardando il giovane Stefano che si lancia nel mondo della musica affidandosi alla sua intuizione e passione, cosa gli dici?
Se dovessi dare un consiglio al me più giovane, direi a Stefano di avere più coraggio e di essere più testardo nell’affermare le proprie convinzioni. Da giovani ci si affida spesso a persone con una loro agenda, e si finisce per fare scelte che non sono in linea con il progetto. Penso, ad esempio, al mio primo album: c’erano due o tre brani con una band napoletana molto forte, che divennero quelli spinti in radio, snaturando un po’ il senso dell’album. Avrei dovuto essere da solo in copertina, o forse non metterci nessuno, per raccontare meglio la storia del disco.
Quello è stato un errore importante, ma col tempo ho capito che bisogna essere “capatosta”, come si dice a Napoli, e andare avanti con la propria visione
